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  • Anonimo

Quaresima e Carnevale, una leggenda Castelluccese

C'era una volta... Sì, tanti anni fa, ma proprio tantissimi anni fa. Diciamo al tempo dei nostri nonni... Che dico? Almeno al tempo dei nostri bisnonni o trisnonni... Ma nemmeno, forse quando vivevano i nonni dei nostri trisnonni... Be', non è possibile dire quando, ma sicuramente un tempo lontanissimo. Sta di fatto che allora a Castelluccio viveva una giovane di doti particolari. Bellissima era. Per capirci meglio, aveva le bellezze del sole a primavera, quando l'aria è fresca e profumata dai tanti fiori, le rose specialmente, e dalle erbe che crescono nei prati e tutt'intorno la natura splende allietata dal canto degli uccelli e dalle grida dei ragazzi che si rincorrono giocando e schiamazzano felici.

Che c'è di più bello della primavera, la stagione nuova dell'anno? Per questa sua bellezza, che ne faceva una rosa d'ogni tempo, tutti cominciarono a chiamare la donna Primavera, anche se il suo vero nome era un altro.

Primavera non era solo molto bella, ma era anche molto brava, in casa e fuori.

Teneva la casa pulita come l'argento, ricamava, tesseva stoffe al telaio, faceva il bucato e andava a lavare i panni al fiume o a macinare al mulino insieme con le amiche. Era anche brava a coltivare l'orto e a governare gli animali. In più era molto educata e rispettosa con la gente. E sapeva anche un poco di leggere e scrivere. La sua maestra di ricamo le aveva insegnato per prima cosa a scrivere il nome. In un mondo di analfabeti, non firmava infatti come tanti con un semplice segno di croce ma col proprio nome e cognome.

Per tutte queste doti, Primavera era ammirata dalla gente e corteggiata dai giovani più belli e in gamba del paese, che desideravano sposarla. Di notte gli innamorati, con l'aiuto di loro amici, le portavano serenate con canzoni d'amore e musiche struggenti nella speranza di conquistarla. Primavera era figlia unica. Da sotto il balcone di casa, dove abitava con i genitori, i giovani provavano a emozionarla con la voce accompagnata dalla musica di organetti, chitarre e mandolini.

Fra quelli che pretendevano Primavera ce n'era uno alto e grosso, ma, nonostante fosse un perticone, era assai simpatico. In paese, il giovane era conosciuto col soprannome di Carnevale.

Carnevale aveva incantato Primavera col suo canto dolce e il suono del cupi-cupi.

Da sotto il balcone, alla sua amata mandava messaggi:


Affacciati, cuore mio, più non dormire,

tante son le notti passate qui in sospiri.

Innamorato né di roba né di ricchezze,

ma folgorato solo dalla tua bellezza

ne sogno e bramo ognora le dolcezze.

Le tue nere chiome son per me raggi di luna,

e se mi bacia, spero, finalmente la fortuna

dei due pensieri ne facciamo certo uno.


Anche per via di questi svariati mottetti, Primavera aveva finito per innamorarsi di Carnevale, preferendolo agli altri giovani corteggiatori. E per fargli capire che lo avrebbe accettato come sposo, una notte, nel corso della serenata, era scesa zitta zitta dal letto e, scalza per non farsi sentire dai suoi genitori, si era affacciata un momento alla finestra con una candela accesa in mano. Era il segnale per dire a Carnevale che lo accettava.

Così i due cominciarono ad amarsi segretamente, perché i genitori di lei non vedevano di buon occhio questo matrimonio. Per sposo della loro Primavera volevano un giovane più bello e più ricco e fecero di tutto per contrastare questo amore. Sorvegliavano la figlia e arrivarono anche a tenerla per qualche tempo rinchiusa e a mollarle anche qualche sberla per cercare di farle dimenticare quel giovane fannullone piuttosto allergico al lavoro, a cui piacevano solo i giorni di maltempo, le feste e le notti lunghe per poter dormire a sazietà o per spassarsela in baldoria con gli amici, i quali erano del suo stesso avviso: rimandare sempre a domani quel che si sarebbe potuto fare oggi.


Nottetempo, specie d'inverno, un loro diletto era dar fuoco alle grondaie delle abitazioni. Incendiavano un foglio di carta o uno straccio imbevuto di petrolio e lo infilavano nella grondaia di zinco. La fiamma, aspirata con violenza verso l'alto, produceva scoppi e forti rumori che sorprendevano e spaventavano gli inquilini della casa.

A quel tempo, tra muro e stipite delle porte di quasi tutte le abitazioni esisteva il pertugio, una specie di finestrella, da dove potevano entrare e uscire i gatti e le galline di casa. Ai buontemponi il buco serviva per fare dispetti. Uno di questi scherzi erano i cosiddetti "fomenti". In un recipiente di latta qualsiasi, purché passasse dal pertugio, mettevano brace e stracci, zolfo e peperoncino piccante in abbondanza. Quando il miscuglio cominciava a bruciare lo si introduceva nella casa appunto per mezzo di quel pertugio. Siccome emanava un fumo pestilenziale e irritante, le persone che si trovavano in casa, colpiti da accessi di tosse, starnuti e bruciore agli occhi, erano costrette a spalancare porte e finestre per far cessare quel fumo pestifero, anche se da fuori veniva un freddo cane. Naturalmente la brigata responsabile del fattaccio se la dava a gambe scompisciandosi dalle risate.

I genitori di Primavera, per allontanare Carnevale dalla loro casa, durante l'ennesima serenata, gli calarono addosso una secchiata d'acqua. La sera successiva, visto che lui non la smetteva, gli versarono sulla testa l'intero contenuto dell'orinale. Arrivarono perfino a minacciarlo di fargliela passare a legnate la voglia di portare serenate alla loro figlia. Ma fu tutto inutile: quando due si vogliono cento non ci possono, dice il proverbio. Cosicché alla fine i genitori della giovane si dovettero arrendere di fronte all'amore forte dei due e acconsentire a farli sposare.


Prepararono la festa di nozze. La cerimonia si svolse in casa della sposa, con una bella e allegra tavolata di parenti e amici

Il vino era frizzante ma generoso e si faceva bere. Si continuò a brindare e a bere anche dopo aver distribuito i dolci, pastette e pezzetti fatti in casa, e i confetti che gli uomini s’erano messi nelle tasche dei vestiti di panno che sapevano di naftalina, che serviva ad allontanare le tarme.

Al tavolo grande, che si trovava accanto a quello degli sposi, sedeva anche l'allegra brigata dei compagni più stretti di Carnevale, i soliti compagni di bevuta e di altri stravizi. Tra mangiare e bere in abbondanza, sul far della sera, l'atmosfera si era surriscaldata abbastanza. I compagni presero sottobraccio Carnevale quasi perso nei fumi dell'alcol e lo portarono fuori. Per una boccata d'aria, dissero. Fuori era già notte. Se uno si fosse potuto elevare a volo di uccello sopra i tetti delle case avrebbe visto ardere in ogni punto il paese alle vampe dei falò. I fucarazz erano stati accesi nei larghi, nelle piazzette, nei vicoli, nei vicinati di ogni rione. Ricorreva la festa della purificazione: si scacciava la cattiva stagione e s'invocava la primavera. L'inverno se ne andava via con i suoi rigori climatici e i patimenti della sempre incombente carestia. Con l'avvento della primavera rinasceva la speranza di un'annata propizia. In questa attesa, il popolo era in allegria accanto ai fuochi che a vampate facevano sfrigolare e crepitare come tric-trac la ramaglia accumulata da settimane di frenetica raccolta soprattutto da parte delle bande di ragazzi nelle campagne prossime al paese. Intorno ai fuochi, si arrostiva, oltre a carne e salsicce, tutto ciò che si poteva cuocere a scottadito tra brace e cenere ardente. Si divorava di tutto e si beveva a garganella. Una volta all'anno, si sa, è lecito impazzire, e la gente impazzava in balli, suoni, canti e in sfide a saltare le vampe. Travestiti in maschera e irriconoscibili, ognuno coglieva l'occasione per saziare la pancia e anche per cantare ad alta voce le contumelie ai potenti... Una pacchia... Una pacchia più pacchia di così Carnevale e i suoi amici avrebbero potuto solo sognarla. Cosicché ingozzandosi di carne e salsiccia, e bevendo vino, in quella cuccagna ci sprofondarono fino al collo.


Dimentico di sposa e sposalizio, Carnevale, ubriaco fradicio, barcollante, veniva trascinato dai compagni da un fuoco all'altro. Ma siccome non si reggeva più in piedi, per poter girovagare in ogni dove e continuare a fare baldoria, bisognava trovare un rimedio. Pensa e ripensa, dopo una caterva di discussioni strampalate, la soluzione fu trovata. Sarebbero andati furtivamente a sciogliere l'asino nel catùi di un vicino e, una volta fuori dalla stalla, issarvi sopra Carnevale, che doveva cavalcare a pelo, vale a dire senza sella. Grande e grosso com'era, i compagni, fatti anch'essi a vino e malfermi sulle gambe, dopo una serie di maldestri tentativi, ci riuscirono a fargli inforcare, a gambe penzoloni, la schiena dell'asino. Convennero però che egli poteva reggersi in equilibrio sulla cavalcatura solo se si fosse bilanciato a braccia aperte tenendo in ciascuna mano un fiasco di vino. Dietro all'asino partì, a suono di trombe e trombette, un corteo di gente mascherata e vociante, armata di tamburi e coperchi, pifferi e organetti, campanacci e cupi-cupi... Un serraglio per ogni genere di suoni canti e di rumori che viaggiava dietro a Carnevale il quale, traversando i luoghi di baldoria, faceva bella mostra di sé con tre giri di salsicce intorno al collo.

Sta di fatto che i suoi compagni, per l'occasione, avevano da tempo anche in programma di bruciare fuori porta una grondaia che non gli era mai riuscito di incendiare in passato perché colui che abitava la casa era particolarmente vigile e aveva promesso loro una lisciata di pelo a dovere se si fossero permessi. La notte dei fucarazz, purificatrice per uomini, animali e campi, era buona anche per purificare... quella grondaia, incendiandola. Si diressero al luogo del malestro appena la carovana che li seguiva si disperse. Come arrivarono sul posto, Carnevale, a un passo malagevole dell'asino, stramazzò pesantemente a terra, battendo la testa su una pietra. Non un grido e neppure un lamento emise il dimentico fresco sposo. I compagni cercarono di sollevarlo senza riuscirci. Lo strattonarono, prima piano, poi più forte, innervositi perché non dava segni di vita, pensando che recitasse e facesse il finto morto. Uno di essi, che anche nelle nebbie del vino cominciava a essere preoccupato, gli soffiò forte in bocca in un maldestro tentativo di rianimarlo. Nessuna reazione... Allora è morto per davvero, si dissero. Furono assaliti da terrore. Nonostante fossero ubriachi fradici, il rimorso e la paura presero a farsi strada nelle loro menti confuse. Sarebbero stati sicuramente accusati di averlo ucciso loro... Ma che fare? Una decisione bisognava prenderla. Avevano alle spalle il dirupo di Pietrasasso, lo stesso in cui venivano buttati gli asini quando ne moriva uno al paese. Ma ebbero paura che dal puzzo si sarebbe scoperto il cadavere. Meglio farlo sparire in altro modo. Infossarlo? E chi aveva la forza di scavare una buca? Poi con le mani, figurarsi... Bisognava a ogni modo tirare a sorte chi dei tre doveva scavare con le mani... Nessuno fu d'accordo. Là intorno c'era un grosso cumulo di fascine... Uno dei tre lo adocchiò.

"Ecco la soluzione", gridò trionfante. "Che fessi! Non ci avevamo pensato...

Possiamo bruciarlo!... Che ne dite?"

"Sì, sì, bruciamolo", gridarono in coro.

Non si perdonavano a non averci pensato prima. Sì, Carnevale andava bruciato. Così non avrebbe lasciato traccia la sua scomparsa. E nessuno, in quella notte di fuochi, avrebbe sospettato delle vampe che, fuori dal paese, sembravano raggiungere il cielo. I tre udirono semplicemente un sordo lamento. Forse avevano arso Carnevale ancora vivo.


Primavera non avrebbe voluto che il suo amato sposo si allontanasse dalla cerimonia per dare ascolto ai suoi amici già sbronzi che lo trascinavano fuori con la scusa della boccata d'aria. Non stava bene lasciare gli invitati... e, poi, lei, che aveva aspettato tanto il giorno che le avrebbe consentito di stare per sempre vicino al suo amato, aveva sì o no il diritto di non privarsi della sua presenza neanche per un minuto? Perché allora lui non aveva avvertito il bisogno di rientrare immediatamente? Che era successo?... Primavera era in preda a uno strano presentimento. Si era fatta notte e Carnevale e i tre che erano usciti insieme con lui non rientravano. Amici presenti alla cerimonia di nozze si offersero di andare a cercarli. Ma fuori nessuno dava loro retta. Tutti erano immersi nella sfrenata e rumorosa baldoria.

E chiunque degli invitati alle nozze andava fuori a cercare nel dedalo di strade, vicoli, cortili, stalle e cantine o dovunque ardevano fuochi si buscava derisioni e parolacce. Quando alla fine non ci fu più nessuno che andasse a cercare, Primavera si partì lei, così come si trovava, vestita da sposa. Passò per una che si fosse così mascherata per partecipare alla festa del rinnovamento. L'alba la trovò accasciata, stanca e sfinita di freddo, sui gradini di una casa del rione più alto del paese, tra un fetore di vomiti e di altri lasciti umani. La recuperano i suoi genitori che l'avevano cercata affannosamente tutta la notte. A fatica la portarono in casa. Cercarono di rifocillarla senza riuscirci. La misero a letto perché riposasse. Ma appena poté, si vestì di una funerea gonna logora a pieghe, in testa un fazzoletto, ugualmente nero, annodato per le cocche sotto il mento, e uscì di casa con in mano una scopa. Da allora cominciò a girare a caso senza un momento di requie di giorno e di notte. Disfatta dal dolore, quasi piegata in due, si appoggiava a mala pena alla scopa per non cadere. Sempre più esausta dalla stanchezza e dai rigurgiti di freddo di quell'inverno al tramonto, si aggirava bussando a tutte le porte a qualsiasi ora del giorno e della notte, fossero porte di abitazioni, di negozi, di botteghe, di cantine, di stalle o di ripostigli. Sulle prime, chi c'era dentro, l'apriva. Le persone più caritatevoli e misericordiose cercavano di confortarla, alimentarla e dissetarla. Lei non aveva fame né sete. Era tutto inutile. Rifiutava di aprire la bocca. I bambini vedendola così stremata s'incantavano a guardarla. Ne provavano pietà. Se avevano qualcosa in tasca di goloso gliela offrivano.. Ma la domanda che rivolgeva a tutti, grandi e piccoli, era sempre la stessa: "Si trova qui Carnevale mio? L'avete visto? Perché l'avete sequestrato e chiuso in casa? Liberatelo perché è mio marito e ho diritto di tenermelo a casa mia dal momento che finalmente l'ho sposato." Ogni giorno era la stessa musica, da mattina a sera. Non c'era strada, vicolo che non visitasse, camminando sempre più curva, sempre più stanca, reggendosi in piedi con la scopa che, a furia di strisciarla per terra, si era quasi ridotta al solo bastone. Anche le sue gambe sembravano accorciarsi ogni giorno ingoiate dalla gonna divenuta sempre più lunga. Passava la notte all'addiaccio, sotto un arco di porta, sotto un balcone o su una scala dove crollava sfinita. La gente l'avvistava, ma alla fine non più apriva alla bussata insistente, né la soccorreva più perché si era assuefatta a quel penoso quotidiano spettacolo. Si compì così, cercando colui che non trovava, lo spaventoso degrado di quella che un tempo era stata una splendida e sospirata Primavera.

Sette settimane erano trascorse in cui, ora per ora, si era nutrita di immensa pena. Si era ridotta a una larva quando al quarantesimo giorno di quel travaglio nessuno più la vide. Scomparsa. La persona che per ultima la scorse sui gradini di casa riferì che addosso a lei non c'era più nemmeno l'ombra della meravigliosa donna che era stata nel cuore di tutti. La mattina della definitiva sparizione ricorreva la Pasqua cristiana. Era appunto finita la "quadragesima" o "quaresima", come pure si chiamò nella forma accorciata. E Primavera, prima di scomparire per sempre, non era più Primavera, ma era divenuta appunto Quaresima. La vicina di casa che l'aveva vista per l'ultima volta, fortemente colpita, si disse che bisognava assolutamente trovare il modo per ricordarne l'immagine. Ci pensò un bel po' e l'unica cosa che riuscì a fare da parte sua fu di raffigurarla così come si era ridotta: nelle sembianze di una bambola cenciosa dallo sguardo spento e inespressivo, munita di scopa, il sostegno su cui si era trascinata nei quaranta giorni di dolorosa agonia, durante i quali anche le gambe, rattrappitesi, erano quasi sparite. Se avesse potuto ridarle la vita, lei, a Primavera, le gambe nuove gliele avrebbe approntate, e non due ma sette, una per settimana di sofferenza. A questo pensiero, la buona donna ebbe un mesto sorriso.

"Che idee strane, pensò, ti suggeriscono a volte amore e compassione."

Ma sì, almeno in immagine quel dono a Primavera lei sentiva di doverglielo fare. Le venne in mente che una vecchia gallina, che non faceva più le uova, nel pollaio l'aveva. Con le penne scure di essa avrebbe potuto approntare per la sposa sfortunata agili gambe, leggere appunto come piume. Sentiva di risarcirla così. Ne scelse appunto sette: sei nere e una bianca. Con la penna bianca intendeva rievocare il vestito da sposa indossato da Primavera. Sei penne nere di dolore e una bianca di letizia, pendenti da uno spago al posto delle gambe... La donna della benevolenza appese il simulacro di Quaresima da lei ricostruito bene in vista alla ringhiera del balcone di casa. Intendeva così annunciare al paese la perdita di colei che era stata per tutti un'autentica Primavera.


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